Sta alla canzone italiana come il quark alla fisica quantistica. Con buona pace di Canzonissima, del Cantagiro, del Festival Bar e di “Un disco per l’estate”, il Festival per eccellenza è quello di Sanremo. Piaccia o meno, è nella città dei fiori che si svolge la passerella canora più famosa della Penisola. In tanti fanno notare che la musica è emozione e che le emozioni non sono suscettibili di classificazioni. Difficile dire se le corde del cuore possano vibrare di più per L’Eroica di Beethoven o per Via del Campo di De Andrè ed è certamente inopportuno istituire un confronto tra “Voce e notte” e “Imagine”.
La musica è evasione, poesia, ritmo, rivoluzione: non c’è un podio per i saliscendi dell’animo. Eppure ogni anno siam lì, noi e altri 10 milioni abbondanti di italiani, a un orario avanzato, di solito utile per un bicchiere di wisky o un sussurro d’amore; siam lì a vedere chi iscriverà il proprio nome nell’albo d’oro inaugurato da Nilla Pizzi, col suo “Grazie dei fiori”. Era il 1951, l’anno del riarmo militare, votato il 7 marzo, e della prima donna nella compagine governativa: nel settimo governo De Gasperi, quale sottosegretario del Ministero dell’Industria e del Commercio è infatti nominata Angela Maria Guidi Cingolani. La rassegna sanremese ha solo tre partecipanti, che però propongono ben 20 brani complessivi. Presenta Nunzio Filogamo, a coadiuvare gli sforzi della vincitrice ci sono Achille Togliani e il duo Fasano. I protagonisti ancora non lo sanno, ma stanno scrivendo la storia delle sette note.
Nilla Pizzi vince anche l’edizione successiva grazie a “Vola colomba”, ma è nel 1958 che il Festival di Sanremo torna prepotentemente alla ribalta. A vincere la competizione canora è infatti Domenico Modugno con “Nel blu dipinto di blu”, brano che assurgerà a gloria internazionale fino a diventare un vero e proprio emblema della canzone italiana. Gli anni 60 son quelli di Mike Bongiorno, che presenta le edizioni dal 63 al 67. In quell’Italia che s’interroga sulla legittimità di una protesta che scuoterà prima l’America e poi l’Europa, Sanremo canta l’amore acerbo, con la giovanissima Gigliola Cinquetti, che trionferà anche all’Eurofestival. Tre anni dopo urla il dolore, rappresentato dal gesto estremo di Luigi Tenco: “Ciao amore ciao”, da canzone bocciata a testamento spirituale. Fabrizio De André dedicherà all’amico scomparso un brano struggente e meraviglioso, “Preghiera in gennaio”. I cantautori diffondono il verbo di una protesta malinconica, ma non passano per Sanremo. Comincia a dilagare il convincimento che la musica, la buona musica, non possa conciliarsi con quella passerella nazional popolare e negli anni Settanta il Festival attraversa una pericolosa crisi d’identità.
Eppure è proprio nei primi anni 70 che personaggi come Dalla e Vecchioni fanno la loro apparizione sul palco sanremese. Negli anni 80 e seguenti il Festival incorona semi sconosciuti, come Tiziana Rivale, e mostri sacri della nostra musica leggera, leggi Al Bano e Romina Power o Riccardo Fogli. Amato, odiato, deriso, osannato, come ogni icona che si rispetti, il Festival continua a raccontare le sue storie a chi ha la pazienza e la curiosità di ascoltarle. Sono “Storie di tutti i giorni”, parafrasando Riccardo Fogli e la sua vittoria annunciata del 1982, ma anche storie incredibili, di quelle che la vita intreccia come un copione da film. Accade infatti che nell’87 un cantante simbolo di Sanremo e dell’italica melodia, Claudio Villa, ribattezzato “il reuccio”, saluti la vita terrena proprio mentre sul palco dell’Ariston sono accese le luci della finale. È il 7 febbraio e Pippo Baudo annuncia in lacrime la notizia, poche ore prima di celebrare il trio Morandi-Ruggeri-Tozzi, che coglierà una vittoria incontrastata.
Gli anni ‘90 restituiscono alla rassegna canora della Riviera quel tocco di mondanità e d’imperdibilità esplicitate dallo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, che nel 95 e 96 fa capolino addirittura nella sigla ufficiale. E così anche gli ipercritici devono rassegnarsi all’evidenza di partecipazioni eccellenti, magari ancora in fase acerba, come accade a Vasco Rossi e Zucchero Fornaciari. Negli anni 2000 c’è l’ascesa prepotente dei giovani, per i quali non c’è solo la manifestazione parallela, il cosiddetto Sanremo Giovani. La rassegna “valletta” è in realtà un trampolino di lancio per Povia, Anna Tatangelo, Dolcenera, Renga. I brani che passano dal Teatro Ariston, cantati ora rigorosamente dal vivo, sono destinati a scalare le classifica di vendita e di ascolto, e non sempre questo accade nel rispetto della classifica. Alla grande Mimì Bertè, cui in vita fu destinato solo un secondo posto, viene intitolato il premio della critica, che proprio lei aveva vinto al primo anno d’istituzione. A Sanremo arrivano star internazionali, il Festival torna ad essere un appuntamento irrinunciabile, mai al riparo dalle critiche, ma sempre al centro delle cronache.
È storia recente quella dei Maneskin, che da artisti di strada si ritrovano nel volgere di due anni prima col trofeo sanremese e poi con quello dell’Eurovision Song Contest. E ancor più recente è l’affermazione di Mahmoud e Blanco, con un brano d’amore, anche se è un amore non convenzionale, lo stesso cantato da Fabrizio De Andrè molti anni prima attraverso il suo “Andrea”.
Già, perché in fondo, al di là dei ritmi, dei look più o meno aggressivi, della protesta sussurrata o spesso gridata, chi vince è sempre l’amore, quel mistero buffo che le note elevano a melodia dell’anima. Tra fiori, polemiche e vestiti scintillanti, settantuno anni dopo quella rima amore e cuore non ha ancora perso incisività, ne magia.









