Pensieri Digitali

Il bassorilievo “Orgiti” – attestazione arcaica del culto di Marte ed Aletrium e del Ver Sacrum Marso/Ernico?

di Antonio Ascenzi

Correva l’estate del 1983, quando un giovane professore di inglese, già apprezzato scultore, rinvenne sotto la pavimentazione di un suo locale adiacente Piazza Rosa, a 17 metri in linea d’aria dalla cinta muraria dell’Acropoli di Alatri, una roccia calcarea a forma di parallelepipedo.
Differente dalle altre per forma, colore e vetustà, la roccia, che misura 77X37X45 lasciava intravedere sulla sua superficie piatta evidenti tracce di bassorilievo. Il giovane insegnante, Romano Orgiti, segnalò la scoperta alla Direzione Generale delle Belle Arti, i cui funzionari datarono la scultura al basso impero e la ritennero di scarso valore artistico. Nemmeno il successivo articolo de “L’Osservatore Romano”, datato settembre 1984, suscitò le attenzioni della comunità scientifica o delle istituzioni locali e la pietra finì nel dimenticatoio, benché il suo scopritore fosse convinto si trattasse di un reperto rilevante.
Grazie all’amicizia che mi lega al professor Orgiti, nel 2010 ebbi il piacere di vedere per la prima volta il bassorilievo, che suscitò immediatamente in me fascino ed interesse. Certamente non estraneo alla fascinazione era il luogo del ritrovamento, a pochi metri da quella Porta Minore che è centrale nella scoperta delle origini di Alatri. Cinque anni dopo, le mie ricerche e le mie osservazioni sul “bassorilievo Orgiti” hanno originato un saggio, tuttora inedito, le cui linee guida cercherò di riproporre in forma molto sintetica in questa sede, nei limiti di spazio derivanti dal tipo di pubblicazione.
Dall’immagine digitale distinsi infatti in modo netto a) la calotta di un elmo con un decoro sulla sommità b) Il cuspide ricurvo o di una lancia o di una foglia di salice e infine c) la testa di un cavallo.
La mia attenzione si focalizzò inizialmente sul cuspide, che non ritenni potesse rappresentare una foglia. Il cuspide è tratteggiato nella sua interezza e risulta più corto dell’elmo che non è rappresentato per intero.
L’elmo visibile dovrebbe corrispondere ad una dimensione reale di circa 30/35 cm, mentre il cuspide si attesta tra i 26 e i 28.  E’ pertanto evidente che non può trattarsi di una spada (che nel periodo villanoviano misurava circa 60 cm) e, sempre per restare nel campo dell’arma bianca, nemmeno di un pugnale, per l’impossibilità di impugnarlo all’altezza della nuca. La lunghezza del cuspide porta anche ad escludere che possa trattarsi di una foglia del tipo sacrale. Escluse le altre tre ipotesi, resta in piedi solo quella che il cuspide rappresenti la punta di una lancia. La posizione dell’estremità della lancia all’altezza del copricapo è peraltro ben compatibile con la dimensione delle lance italiche.
C’è pertanto da chiedersi chi utilizzasse lance con cuspidi ricurvi di foglia a salice. Nel periodo che va dalla Roma dei re a quella della prima età imperiale, l’utilizzo di armi bianche e cuspidi di lancia a foglia era diffuso soprattutto tra le genti italiche ma anche tra celti, etruschi e liguri, ma essi non utilizzavano cuspidi ricurvi. I romani ad esempio, che tanta influenza ebbero sulle popolazioni erniche nell’età repubblicana,  facevano uso di “haste” il cui cuspide aveva venatura centrale non curvilinea. Dal quarto secolo a.c. le truppe romane peraltro abbandonarono le haste per il pilum, arma di lancio e le aste restarono solo per le truppe ausiliari. Ho così dovuto spostare le ricerche a ritroso nel tempo e ho scoperto che a Poggio alla Guardia, collina sita nel territorio della etrusca Vetulonia, è stato ritrovato un cuspide del tutto simile a quello presente nel bassorilievo alatrino, in una tomba a pozzetto datata fine IX secolo ac, del periodo villanoviano. Sempre sul sito di Vetulonia è stato rinvenuto un cuspide simile al nostro nella “tomba del Duce”, caratterizzata dal deposito di oggetti orientaleggianti del VII secolo a.c. Si può pertanto arrivare a considerare che la tecnica del cuspide ricurvo sia stata utilizzata dalle popolazioni italiche tra il villanoviano ed il periodo orientalizzante.
Ho poi compiuto una più attenta analisi dell’elmo a calotta, comune durante il periodo dell’età del bronzo, ma ancora presente e diffuso anche nell’età del ferro, tra l’VIII e il VI secolo a.c. L’osservazione dell’immagine al computer consente di notare che la decorazione non è una cresta. L’orpello raffigura infatti un animale, più precisamente un felino o un canide accovacciato sull’elmo. La figura mitologica, di regola rappresentata da un elemento umano e da un elemento animale, è stavolta composta da due animali. Con sorpresa sono giunto alla conclusione che l’altro animale rappresentato sia un uccello. L’evidenza che l’elmo non sia di quelli ordinari induce a ritenere che la sua funzione non sia ornamentale bensì sacrale. Analoga funzione risulta attestata dall’iconografia di divinità su monete italiche e romane nonché sulle statue di influenza ellenistica (famoso quello dell’Ares borghese presso i Musei Capitolini, dove sull’elmo crestato si nota chiaramente una sfinge).
L’ultima figura del quadro litico, la terza sulla destra, è indubbiamente la più enigmatica in quanto non emergono dettagli netti che consentano di individuare con chiarezza cosa sia rappresentato. Osservando con attenzione una vecchia foto in bianco e nero scattata dal professor Orgiti all’epoca del ritrovamento, l’ipotesi del cavallo prende concretezza e zoomando su ciò che ci interessa emergono la criniera, lo zigomo e il contorno della testa del cavallo.
Riepilogando siamo in presenza di 1) un cuspide di lancia di tipo villanoviano – orientalizzante 2) un elmo a calotta con una sfinge sull’apice, anch’esso dello stesso periodo; 3) un profilo di testa di cavallo.

PRIME CONCLUSIONI

I dati raccolti suggeriscono pertanto una datazione del bassorilievo nella forbice temporale tra il periodo villanoviano (IX secolo a.c.) ed il primo periodo della Roma regia (metà/fine VIII secolo ac.). Il cuspide ricurvo e l’ornamento della sfinge sull’elmo a calotta attestano l’influsso orientalizzante. Inoltre il personaggio del bassorilievo non può rappresentare un semplice guerriero/cavaliere per la particolarità del decoro dell’elmo che ha valenza simbolico-sacrale.

ULTERIORI CONSIDERAZIONI

Con il bassorilievo ci siamo catapultati nell’Italia Centrale, tra l’inizio dell’Età del Ferro e la fondazione di Roma. A quei tempi non si ha certezza di quali gentes avessero occupato i territori con una certa stanzialità. Di certo c’erano gli umbri nell’entroterra adriatico, i Piceni sull’Adriatico, i villanoviani o proto-etruschi nell’entroterra tirrenico, i Latini intorno al Tevere e ai Colli Albani e poi ancora Sanniti, Sabini, Marsi, Ernici (?), Peligni ad est e, successivamente, Volsci ad ovest.
La loro ubicazione fu frutto di un percorso migratorio iniziato all’età del bronzo e proseguito in territorio italico sino in età tardo arcaica.
Le migrazioni erano favorite dal rituale della Primavera Sacra o Ver Sacrum. Venivano consacrati alle divinità, previa consultazione di un oracolo, uomini nati in un determinato anno ed esiliati in altri lidi nella stagione primaverile. Attraverso il rituale, i giovani destinati alla morte sfuggivano ad essa grazie all’intervento di un dio che, sotto le sembianze di un animale che lo simboleggiava (funzione totemica), li conduceva alla rinascita, cioè alle nuove terre da conquistare. Nacquero così dai Sabini i Picentini e Sanniti, da quest’ultimi i Lucani e nacquero altresì gli etnonimi, dall’animale tutelare che li aveva guidati: per gli Irpini e Lucani il lupo, per i Piceni il picchio, per i Sanniti il Toro e così via.
Gli etnonimi non derivano però solo dagli animali guida delle divinità, ma anche dalle divinità stesse. E’ infatti innegabile che i Marsi o i Mamertini si chiamassero così in onore del dio italico Marte.  Tornando ora all’etnia ernica, ci sono tutti gli elementi per affermare che anch’essa sia derivata da un ver sacrum di popolazioni di lingua osco-umbra alla stregua di Marsi, Vestini, Peligni, Irpini eccetera.
Depongono in tal senso  fonti storiche  ed archeologiche. Nel commento al VII libro dell’Eneide il grammatico Servio Mario Onorato non si limitò a curare l’aspetto grammaticale dell’opera virgiliana, ma fornì spiegazioni di tipo storico,  mitologico e religioso. Egli racconta di un dux magnus (ma Burmann ravvisa un possibile errore di trascrizione per marsus, che appare più sensato in territorio ernico) che condusse la sua gente sulle montagne erniche per abitarvi. I luoghi montuosi ed impervi vennero chiamati ernici da “herna”  che in lingua sabina significa sasso. Lo scoliaste veronese, nel commento allo stesso passo virgiliano, fornisce analoga spiegazione sulla derivazione linguistica del toponimo etnonimo “Marsi lingua sua saxa hernas vocant”. L’autore afferma altresì che Anagni (tradizionalmente ritenuta capitale ernica) sia stata colonia fondata dai Marsi e chiosa l’assunto equiparando l’etnia ernica a quella marsicana. Il bassorilievo di Piazza Rosa palesa un forte legame con la tradizione sabina: una comunità sabina, precisamente marsa, aveva occupato  le zone montuose della valle del Sacco, portando con sé tutte le  tradizioni culturali, rinvenibili nella “nostra pietra”, dagli animali guida alla divinità che rappresentano. Gli indizi sono univoci e concordanti: la nostra divinità deve avere in comune tra le stirpi sabine o di lingua osco-sabelica l’esistenza di un suo culto risalente all’età del Ferro o di poco posteriore. Tale divinità risponde inequivocabilmente al nome di Marte, meglio appellato in quell’area, nelle varie lingue e dialetti, Mars, Marmor, Mamers, Marpiter, Marspiter, Mavor e Maris.
E’ la divinità italica per eccellenza, da sempre rappresentata con armamenti militari, come l’asta, l’elmo, lo scudo, a cavallo o alla guida di un carro. Tra gli italici il suo culto superava persino quello di Giove, perché Marte non era solo il Dio della Guerra, ma un Dio Protettore, connesso anche a vari aspetti della natura. Lo stesso Romolo secondo il mito sarebbe nato dall’unione di Marte con la vestale Rea Silvia e gli animali totemici del Dio, il lupo e il picchio, rivestirono un ruolo determinante per la sopravvivenza degli infanti Romolo e Remo, nutriti non solo dalla lupa, ma anche dal picchio. Anche a Roma sotto la guida di Marte si praticava il Ver Sacrum almeno sino agli inizi del II secolo a.c. Molti storici sostengono pertanto che il ratto delle sabine altro non sia che la trasposizione mitologica di un ver sacrum. Va inoltre ricordato che tra le genti di lingua osco-sabina il picchio veniva utilizzato nelle pratiche della disciplina augurale.
A questo punto possiamo sciogliere anche l’ultimo dubbio rimasto: gli animali che formano la sfinge sull’elmo di Marte sono il lupo ed il picchio. La nostra indagine a questo punto rileva che il personaggio centrale della scena è Marte, il Marte italico rappresentato con la sua inseparabile asta, con l’elmo, il cavallo e accompagnato dai suoi animali simbolo in bella evidenza sull’elmo: il lupo e il picchio. Ed allora possiamo così integrare le prime conclusioni.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il bassorilievo di Piazza Rosa raffigura il Marte Italico del primo culto, probabilmente a cavallo (o alla guida di un carro), munito di lancia dal cuspide ricurvo ed elmo, con raffigurazione degli animali sacri al Dio per eccellenza, il lupo ed il picchio. In merito alla datazione si può ipotizzare che sia coevo ai tempi che rappresenta e quindi scolpito in una fascia di tempo che va dal villanoviano (IX secolo a.c.) alla prima Roma regia (metà fine VIII secolo a.c.), oppure che sia stato realizzato in epoche successive seguendo uno schema iconografico tradizionale della divinità.
L’identificazione di Marte all’interno del bassorilievo posto alle falde dell’Acropoli di Alatri rafforza la tesi della presenza del culto di Marte tra gli Ernici ed in particolari tra gli alatrini nonché la tradizione storica che vuole la chiatta ernica derivazione diretta di quella marsa per via di un ver sacrum effettuato non più tardi del IX secolo a.c.
Le fonti ottocentesche, in specie V.G. Moroni e A. Amati, secondo i quali l’informe bassorilievo posto al lato sinistro di Porta San Pietro, (già chiamata Porta Bellona, divinità paredra di Marte), coevo alla posa in opera del muro poligonale, era chiamato dagli alatrini Marzo, vanno,     opportunamente considerate e, unite alle risultanze del mio studio, sembrano decisamente confermare che Marte sia stato la divinità principale delle prime genti che hanno occupato la città di Alatri. Del resto Un palese collegamento tra gli Ernici ed il culto di Marte  è a mio parere offerto da Virgilio nell’Eneide (L VII vv 688-689 (“fulvosque lupi de pelle galeros tegmen habent capit”).
Il sommo poeta  va oltre la narrazione di un’usanza bellica e con essa testimonia quanto fosse presente tra gli Ernici il culto di Marte: il guerriero ernico in battaglia necessita di protezione e chiede aiuto a Marte. Lo fa attraverso un rituale preciso, assumendo le sembianze del’animale totemico che lo rappresenta, il lupo, esattamente come i giovani consacrati si affidavano all’animale guida per affrontare il ver sacrum.
Mi preme a questo punto ringraziare l’amico, professor Orgiti, la cui passione verso l’arte e l’antichità ha contribuito alla realizzazione di questo mio studio.

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